PARLIAMO DI...


18/07/15

TEATRO - "Lo sposalizio" della Solot e quell' "eterno femminino" che muove il mondo

di Maria Ricca

Ci sono dei punti di contatto fra le culture dei sud del mondo. E questo è innegabile. E’ perciò che la visione e la concezione della donna dell’antica società patriarcale, contadina e mediterranea, in molti punti sembra toccare quella tipica di certo Islam, così austera ed intransigente nei confronti del mondo femminile. Deve, dunque,  soffrire la donna che si sposa, essere condannata ad un destino di fatiche e di impegno costanti, per  soddisfare le esigenze di chi da lei si aspetta  efficienza, dedizione , instancabile attivismo. Senza mai un lamento che sia uno, prona alla volontà della suocera prima, del marito poi, ed infine dei figli. Un destino a cui sottrarsi è difficile.  Eppure talmente “normale” nel suo compiersi, che chi vi è esclusa, perché “zitella”, ne soffre ugualmente ed è infelice, fatta oggetto, com’è, di scherno invincibile da parte della comunità.
E’, quindi,  un “coro greco” di rassegnate donne in gramaglie ad esprimere, in avvio di performance, l’anima dello spettacolo “ ‘Lo sposalizio”, messo in scena, al Mulino Pacifico (replica  dell’omonima performance rappresentata a  fine corso) dagli allievi over 26 di Teatro Studio della Solot, Assunta Maria Berruti, Carlo Maria Berruti, Laura Callea, Lucia Cavuoto, Sara Cicchella, Alessandro Cuciniello, Danila De Lucia, Paola Gioioso, Marianna Laudato, Valentina Mottola, Giovanna Reveruzzi, Nella Ventorino, con gli allievi di Teatrostudio Annachiara Benedetto, Giovanni Cannata e Marco Orlando. Regia di Antonio Intorcia.
Una messinscena costruita tra realtà e fantasia, utilizzando al meglio gli spazi esterni ed interni della struttura, attraverso i quali gli spettatori sono stati condotti per mano a riconoscere, scena per scena, gli elementi tipici dell’allestimento di un matrimonio contadino,con tutti i riconoscibilissimi clichés della vita di una comunità come quella rurale. Emergono così via via, in riusciti “camei”,  i personaggi del padre della sposa, in ansia per il raccolto e le carestie ed in continuo conflitto con il Padreterno, “dispensatore” di ogni evento, buono o cattivo che sia, della soave sposa-bambina, che si è ricamata il corredo da sola, della parente invidiosa della “felicità” della nubenda, dell’efficiente madre al vertice dell’organizzazione,  preoccupata, però, non tanto per  i problemi logistici che l’evento pone, ma anche e soprattutto, per il notevole dispendio economico che un matrimonio comporta, onde non sfigurare con gli ospiti, del giovane ingenuo, “scemo del paese”, deriso e coccolato da tutti, devotissimo alla Vergine, del giovane innamorato abbandonato e del contadino che narra ad un pubblico attento e divertito la storia della volpe, bruciata dalla cometa, che inseguiva appassionatamente. Il tutto espresso in una lingua vernacolare aspra, ma efficace, dura, e per questo forse più convincente.
 Sullo sfondo la natura, e lo scorrere del tempo, gioiosamente rappresentata dalle due attrici interpreti di aprile e maggio, il mese delle spose e dell’allegria, con il contorno della veggente di turno che predice il futuro e racconta quel che desidera e che si vuol sentire e far sentire.

Applausi, infine, per una messinscena piena di spunti che varrebbe ancora la pena approfondire e sviluppare, in un più ampio discorso sulle tradizioni.