PARLIAMO DI...


25/03/18

TEATRO - Alessandro Preziosi e il carisma maledetto di Van Gogh, ne "L'odore assordante del bianco"

di Maria Ricca

NAPOLI - Il bianco come candore, come pudore, come ingenuità, come annullamento totale della personalità. Il bianco che anestetizza ed avvolge in un’atmosfera solo apparentemente “incolore”, ma in realtà profondamente densa di significati. Così Alessandro Preziosi si confronta con il carisma maledetto di Vincent Van Gogh, protagonista dello spettacolo “L'odore assordante del bianco”, scritto da Stefano Massini e diretto da Alessandro Maggi,  che al Mercadante incanta gli spettatori e restituisce, in un’ora fitta fitta ed intensa di scambi verbali, il dramma di un artista enigmatico e profondissimo, “perduto” dalla sua stessa genialità, egocentrico e folle, mai ingabbiabile in uno stereotipo che sia uno. 
Ci prova Alessandro Preziosi, forte di uno studio d’attore alla Stanislavkij, che però sa abilmente rielaborare a suo personalissimo modo, a dare al suo personaggio le contorsioni mentali e fisiche di un individuo stravolto da un’infanzia infelice e poi preda delle esperienze più diverse, incapace di uscire dalla prigione in cui egli stesso si  rinchiude, per la feroce sensibilità che lo anima e che infine lo annichilisce. 
Nella stanza candida dell’ospedale in cui Van Gogh è ricoverato, al Saint-Paul-de-Manson, in Provenza, nel 1889, i fantasmi dell’anima gli compaiono davanti uno via l’altro, in un costante alternarsi fra verità ed illusione, realtà e fantasia, continuamente in sospensione: il fratello Theo ed il rapporto conflittuale con lui, che ne conosce ogni piega dell’animo e  ne è parimenti affascinato ed impaurito, il medico sadico che lo umilia, gli infermieri che si vendono per due soldi al miglior offerente, l’illuminato psicologo che, attingendo alle più moderne teorie, tenta di risolvere l’enigma della sofferenza di Vincent, senza l’ausilio di infernali vasche di decompressione o di maledetti elettrochoc. 
E allora lui, stranito, consapevole di essere il primo nemico di se stesso,  si aggrappa disperatamente alla vita, che gli è negata innanzitutto e volutamente, per ridurlo “alla ragione”,  nell’ospedale dei matti, proprio da quella tabula rasa che è il biancore candido delle pareti.  
I colori fanno paura a chi ha la “sindrome della corona”, come i medici, che si credono onnipotenti, e allora scelgono il bianco per dominare gli ammalati. 
Van Gogh chiede solo, disperatamente, di ritornare alla vita. E chiede, dunque, innanzitutto, quei colori negati, quelle tele che potrebbero restituirgli l’anima, per lasciare su ognuna un pezzetto di sé. Perché chi dipinge “si lascia attraversare dai colori”,  per ricostruire la realtà. E perciò c’è da aver paura degli artisti. 
Mirabili, infatti,  le sue descrizioni di Parigi, fra l’odore di pane e i profumi dei più vari, fra cafè chantant di artisti e donne di malaffare, e poi di Londra, “grigia e plumbea”, e infine di Anversa, che odia . 
Su tutto l’ombra della follia che confonde il pubblico attento, in una conclusione per nulla risolutiva, in cui sanità e pazzia si mescolano sapientemente. Ciascuno degli spettatori è costretto, infine, a fare i conti con il proprio “io”, con la propria psicologia, con i propri interrogativi irrisolti, affascinati dalla maestrìa interpretativa di Preziosi, sostenuta da una potente scrittura teatrale che lascia senza fiato.