Michela Renna |
di Maria Ricca
Cos’era
il “Grand Tour” ? Il “master on the road” si potrebbe quasi dire, per i giovani
nobili e colti dell’Ottocento, che completavano la propria preparazione
universitaria, sperimentando un viaggio
in Italia. Pellegrini, mercanti, artisti, predicatori, studiosi, ma anche
banditi, nullafacenti e avventurieri percorrevano le strade d’Italia, sin dal
Medioevo. Ma solo nell’Ottocento il viaggio di istruzione acquisì il suo senso
più pieno, e l’Italia divenne tappa privilegiata di un 'giro' che i giovani
rampolli dell'aristocrazia europea, gli artisti, gli uomini di cultura,
cominciarono a intraprendere con regolarità.
Il
tour, particolarmente lungo e ampio e
senza soluzione di continuità, con partenza e arrivo nello stesso luogo, aveva
come meta privilegiata l’Italia e si fermò anche nel Sannio.
E’ di questi giorni l’uscita nelle
librerie dei volumi “Grand Tour Sannio”, parte prima e parte seconda, per i tipi di Arturo Bascetta Editore, redatti a
sei mani dalla professoressa Michela Renna, docente universitaria ed anglista,
dallo studioso Virgilio Iandiorio e dalla professoressa Teresa Zeppa, che hanno
analizzato, nei particolari, gli scritti dei viaggiatori inglesi in città e nel territorio, in generale.
Sono loro, ad esempio, a mettere in guardia, da “trip advisors” ante litteram, i visitatori stranieri dalle truffe, dando delle “dritte” sulla contrattazione dei prezzi di locande ed alberghi. Famose le loro “complaint letters”, vere lettere di reclamo, rispetto alle ubicazioni degli hotel di allora, ma anche l’ammirazione per l’Arco di Traiano, considerato il miglior esemplare di maestria romana ancora esistente, “poiché la bellezza dei materiali che lo compongono, il gusto esibito nell’architettura e l’eccellente fattura delle varie sculture che lo adornano sono evidenti nella stessa misura”.
Sono loro, ad esempio, a mettere in guardia, da “trip advisors” ante litteram, i visitatori stranieri dalle truffe, dando delle “dritte” sulla contrattazione dei prezzi di locande ed alberghi. Famose le loro “complaint letters”, vere lettere di reclamo, rispetto alle ubicazioni degli hotel di allora, ma anche l’ammirazione per l’Arco di Traiano, considerato il miglior esemplare di maestria romana ancora esistente, “poiché la bellezza dei materiali che lo compongono, il gusto esibito nell’architettura e l’eccellente fattura delle varie sculture che lo adornano sono evidenti nella stessa misura”.
Sottolinea Michela Renna: “Il Grand Tour rappresentava il
culmine della formazione, arricchito dalla conoscenza dei luoghi dell’antichità
classica. In ogni modo, non si devono sottovalutare le difficoltà e gli
inconvenienti insiti in viaggi che coprivano distanze enormi per l’epoca.
L’Europa del XVIII secolo era un luogo potenzialmente pericoloso e molto
scomodo in cui viaggiare. Lo straniero, oggi come ieri, era spesso considerato
una preda, una sorta di bottino su cui buttarsi. .”
Importantissimo, dunque, lo studio delle lingue straniere. E gli scritti invitano proprio a studiare la lingua del Paese che percorrono: “È possibile viaggiare in Italia senza una conoscenza dell’Italiano o del francese, ma in questo caso il viaggiatore non potrà allontanarsi facilmente dai sentieri battuti e sarà sempre costretto da albergatori e quant’altri a pagare ‘alla inglese’, cioè gli saranno addebitati importi decisamente superiori rispetto ai prezzi ordinari. Una conoscenza del francese è utile… ma per coloro che desiderano contenere la spesa nei limiti ragionevoli, è indispensabile una minima conoscenza della lingua del paese.”
Poi l’episodio delle Forche Caudine, circondate da entrambi i lati da montagne inaccessibili, attraversate da un torrente. I romani, che erano entrati in questo tratto, trovando il passaggio in avanti impedito da un’ostruzione di alberi e rocce, tornarono indietro ma furono bloccati dal nemico, che nel frattempo aveva occupato le alture adiacenti. L’esercito romano, dopo essere stato trattenuto nella vallata per alcuni giorni, fu costretto ad arrendersi e a sottomettersi all’umiliazione di passare sotto il giogo.
Importantissimo, dunque, lo studio delle lingue straniere. E gli scritti invitano proprio a studiare la lingua del Paese che percorrono: “È possibile viaggiare in Italia senza una conoscenza dell’Italiano o del francese, ma in questo caso il viaggiatore non potrà allontanarsi facilmente dai sentieri battuti e sarà sempre costretto da albergatori e quant’altri a pagare ‘alla inglese’, cioè gli saranno addebitati importi decisamente superiori rispetto ai prezzi ordinari. Una conoscenza del francese è utile… ma per coloro che desiderano contenere la spesa nei limiti ragionevoli, è indispensabile una minima conoscenza della lingua del paese.”
Poi l’episodio delle Forche Caudine, circondate da entrambi i lati da montagne inaccessibili, attraversate da un torrente. I romani, che erano entrati in questo tratto, trovando il passaggio in avanti impedito da un’ostruzione di alberi e rocce, tornarono indietro ma furono bloccati dal nemico, che nel frattempo aveva occupato le alture adiacenti. L’esercito romano, dopo essere stato trattenuto nella vallata per alcuni giorni, fu costretto ad arrendersi e a sottomettersi all’umiliazione di passare sotto il giogo.
Ma tradurre non è un po’ tradire? “Tradurre
da un sistema linguistico a un altro – sottolinea Michela Renna - significa
trasportare da una cultura a un’altra una serie di valori, pensieri ed
ideologie strettamente connesse al tessuto linguistico di chi scrive. Dal
momento che il traduttore, più che un semplice “traghettatore” di significati
letterali è prima di tutto un mediatore culturale, il suo compito è più
complesso di quanto sembri. Si è parlato a lungo della presunta fedeltà o meno
al testo, ma è ormai chiaro che il termine fedeltà, da solo, non riesce a esprimere
la notevole varietà di implicazioni legate al concetto di traduzione. Il vero tradimento non consiste nella
traduzione in sé, quanto nel rischio di fraintendere le intenzioni e il
background culturale dell’autore della lingua di partenza. Un’apparente
infedeltà nel tradurre ‘out of the blue’ con ‘di punto in bianco’, è invece un
atto di fedeltà. Sostituendo il blue con il bianco, si pone il lettore italiano
nella stessa situazione in cui il testo voleva si trovasse il lettore inglese.
Il fatto di non tradurre alla lettera, apparente infedeltà, si rivela alla fine
un atto di fedeltà.”
Per me tradurre significa soprattutto
negoziazione, ossia un processo in base al quale, per ottenere qualcosa si
rinuncia a qualcos’altro e alla fine le parti in gioco dovrebbero uscirne con
un senso di reciproca soddisfazione (citando Umberto Eco). Nel processo
traduttivo, le parti in gioco sono due: il testo fonte (in questo caso, gli
scritti dei viaggi di Craven, Swinburne…) e tutta la cultura in cui il testo
nasce. Dall’altra parte c’è il testo di arrivo (in questo caso, la traduzione
italiana degli scritti). La negoziazione sta nel tradurre fedelmente i
significati del testo, senza creare distorsioni nella lingua d’arrivo. Un
lavoro di negoziazione e mediazione continuo, dove la creatività è
fondamentale, e dico questo andando contro i tanti che ancora oggi affermano
che tradurre non sia un atto creativo.
In conclusione, un libro che tutti i beneventani dovrebbero leggere. Anche per la semplicità e l’essenzialità con la quale gli anglosassoni descrivono la nostra realtà.
In conclusione, un libro che tutti i beneventani dovrebbero leggere. Anche per la semplicità e l’essenzialità con la quale gli anglosassoni descrivono la nostra realtà.