di Maria Ricca
La forza di un abbraccio. Quello invocato disperatamente, all'inizio, da un giovane privo di certezze, in preda all’avvilimento, e quello che alla fine della performance si scambiano i protagonisti dei significativi momenti di vita di cui si compone "The ring", lo spettacolo dell’Associazione “Il Colibrì” di Sant’Arpino (CE), firmato da Antonio Iavazzo, decimo appuntamento per la rassegna "FaziOpen Theatre, organizzata da Gianni Arciprete, in scena fino a questa sera, domenica 9 febbraio, ore 19, per iniziare poi il proprio percorso verso nuove mete teatrali. Come in una seduta psicoanalitica di gruppo, uno alla volta, disposti in cerchio, personaggi ed interpreti raccontano delle proprie esistenze, in una curiosa ed efficace fusione tra realtà e fantasia, secondo confini volutamente labili tra storie vere raccontate dai protagonisti ed immagini inventate o più semplicemente enfatizzate. Ne vien fuori una "comédie humaine" appassionante ed appassionata, che emoziona gli spettatori, li commuove e li diverte, senza accusare cali di ritmo, ma anzi tenendo sempre alta l’asticella dell’attenzione e dell’interpretazione, davvero molto efficace per tutti. In scena Giuseppina Carli, Patrizio Castiello, Rosalba Ciliento, Mario Di Fraia, Raffaele Di Raffaele, Maria Grazia Falco, Valeria Giove, Licia Iovine, Gennaro Marino, Annamaria Renna, Mariantonietta Ruotolo, Chiara Russo (anche assistente alla regia), Salvatore Salviciento, Mariarosaria Silvestro, Eliodoro Vagliviello, Antonio Villano, Salvatore Zappulo.
Verità, finzione, capacità di interpretare fino in fondo i dissidi più profondi dell'animo umano...Così il teatro si fa vita e la vita entra nel teatro, nei suoi momenti più drammatici, ma anche nella leggerezza e banalità dei casi dell'esistenza, perché nessun aspetto è trascurato. I testi restano evocativi, per favorire l'immedesimazione di ciascuno in vicende familiari, a sé vicine. Interessanti, poi, le soluzioni sceniche utilizzzate per sottolineare i momenti topici delle performances. Dalla benda sugli occhi ed il vagare senza meta dell'uomo, momentaneamente cieco, senza la guida dei propri genitori, fino alla rielaborazione del lutto e al ritrovare se stesso. Poi il nastro adesivo imposto sulla bocca di chi deve tacere dei soprusi inflittigli, il mantello sulle spalle, che evoca il male. E ancora, come non riconoscersi nella madre chioccia, che attende speranzosa il figlio, ormai più incline alle seduzioni dell'amore fisico che alle tenerezze di quello materno? Salvo poi rivendicare la propria indipendenza da lui, riscoprendosi donna nel ricordo della propria giovinezza, passata, ma non dimenticata. C'è spazio, però, anche per la leggerezza dei divertenti siparietti ritagliati a misura della "femme fatale", che cambia indumento intimo come le situazioni lo richiedono, o dedicati all'uomo comune in preda ai bisogni impellenti da soddisfare, fino alla dottoressa che perde la testa per i pazienti impossibili da gestire. E la vita del resto, è tutta "un equilibrio sopra la follia", direbbe il poeta. Struggenti, infine, i momenti dedicati agli spettri della violenza sulle persone indifese, con l’ "orco", che può assumere persino le fattezze di una maestra bellissima, ma crudele, ad una madre perduta, mentre tutti festeggiano l'anno nuovo, e alla malattia, scoperta per caso, con il dolore di non potere aver figli. In mezzo, gli affetti familiari della tradizione, come quello per il nonno, inevitabilmente andato via, e per il padre che si spegne, dominato dall'Alzeheimer. E poi l'incapacità di trattenersi e gestire le proprie rabbie, l’incertezza tipica dell’età giovanile, la serenità per la realizzazione del sé. Fino al trionfo della vita e della speranza, nel momento più alto della congiunzione finale tra chi è madre e chi probabilmente lo diventerà, nonostante tutto.
Uno spettacolo, ha commentato il regista Antonio Iavazzo, nella presentazione d’apertura, che fa parte della sezione “Teatro dei germogli”, a sottolineare il suo carattere sperimentale e di progetto in evoluzione, decimo appuntamento con una rassegna che va crescendo, ogni volta di più, e con la quale si è provato “a recuperare l’essenza stessa del teatro, attraverso storie narrate, ispirate alla verità dell’attore, sugli alti e bassi delle montagne russe del cerchio della vita, lavorando molto sulla verità dell’interpretazione, oltre ogni narcisismo attoriale."
Una menzione particolare, infine, va alla piccola Nadia, l’ "attrice" più giovane del gruppo, nei panni di se stessa, cinque mesi appena e la capacità di reggere un'ora e trentacinque di tensione scenica, cuore a cuore con la madre interprete, un solo corpo ed un'anima sola, in un ardito esperimento artistico, che ha intenerito gli spettatori e reso più efficace e reale la recitazione.