di Pina Arfè*
* artista e scrittrice, autrice di opere letterarie e di riflessioni teoriche su questioni di semiotica e di psicoanalisi
Vorrei
dire che il canto degli uccelli mi sembra un regalo ogni volta che lo ascolto,
ma so che questa emozione si accompagna a tanti luoghi comuni, perciò,
nonostante abbia contraddetto l’ipotesi iniziale, aggiungo che forse esso mi
appare straordinario, perché non posso fare a meno di associargli un sudario
trasparente, intriso del più sofisticato dei timori. Oserei dire quello della
morte.
Perché queste associazioni mi sembrano esaltare, anziché annullare la bellezza?
Colta così, da me stessa, a esprimere queste riflessioni, posso pensare che, se
esse sono giunte alla coscienza del linguaggio, probabilmente si accompagnano a
un sapere nascosto ma desideroso di manifestarsi.
Sto inventando? Gioco con l’immaginazione? E con che altro gioca la filosofia?
Trasparente non solo il sudario, ma anche l’emozione. Ciò che è trasparente
lascia intravedere anche ciò che è sotto la trasparenza. E se è sotto, vuol
dire che è di natura diversa, altrimenti, essendo anch’esso trasparente,
avrebbe la stessa natura della cosa che mi ha emozionata.
Ma la trasparenza potrebbe anche riguardare la temporalità e trasparente potrebbe essere l’attimo che non diventa durata: una sensazione emozionale che va via, così come è venuta. In un attimo.
Se ‘trasparente’, nel caso della mia emozione, allude alla bellezza e alla
fugacità, ciò che non lo è sarebbe ciò che non è bello e che dura nel tempo. E
qui le associazioni sono tante, e le più ovvie sono quelle che si riferiscono
alla bellezza e alla giovinezza. Brutta apparirebbe la lunghezza della vita.
Eppure nelle mie sensazioni, mentre cammino per le strade della mia città e la
visione reale viene sostituita da una visione fissa e
immobile - quella della luce del sole tra le vette dei cedri
- io riesco a sentire un’altra sfumatura nel mio
pensiero: nell’emozione che avverto c’è pure il senso della liberazione. Da che
cosa? Dalla vita, perché io mi unisco a quel canto e a quella luce e perdo la
mia consistenza umana. Senza alcuna pratica meditativa, ma semplicemente perché
l’improvviso canto e l’improvvisa luce mi hanno rapita, e mentre io continuo a
camminare, obbedendo a una memoria che si regge su una coscienza sottintesa, un
altro io mi lascia volentieri e, per empatia o non so perché, diventa un
richiamo d’amore: liberazione.
E qui si ripresenta la parola morte: la morte mi libererà? Se la morte
avvenisse in questo istante, dandomi l’illusione di diventare canto e luce, allora
la identificherei volentieri con la liberazione, confidando in una
transustanziazione in leggerezza.
Ma negli altri istanti che tessono la durata della vita, senza il canto degli
uccelli e la luce tra i rami del cedro, avrei nostalgia di leggerezza? Il peso
degli affetti, la responsabilità della memoria ereditata dai figli,
l’attaccamento simbiotico agli amori più grandi e meno grandi
- gli oggetti, i luoghi, le atmosfere, le sensazioni -
tutto, ogni cosa, mi costringerebbe a restare, bloccata dalla gravità
dell’universo, ad aspettare qualcosa di reale, quella cosa, per niente
emozionante o forse troppo.