Il filosofo ha chiuso il 2 giugno il “Festival della Fede” al San Marco
di Maria Ricca
Una sala piena, ma non pienissima, ha accolto al San Marco,
domenica 2 giugno, il filosofo Massimo
Cacciari per la sua “lectio magistralis”, momento conclusivo di “Symbolum”, il “Festival
della Fede”, realizzato dall’Associazione “La Conchiglia”, che ha animato la
città lo scorso mese di maggio, proponendo dibattiti, incontri, manifestazioni
sul tema della religiosità e dell’incontro col Cristo.
Pochi preamboli in fase introduttiva, con l’intervento di Paolo Palumbo, presidente
dell’Associazione promotrice, e del preside Michele Ruggiano, direttore del
Centro Studi “Sannio”. A parte uno, quello sulla bellezza della città,
apprezzata dal professor Cacciari, e poco valorizzata, che gli è valso l’omaggio
del commissario straordinario Cimitile, di un libro sull’Arco di Traiano, con
il filosofo che ne chiedeva anche uno sul Chiostro di S. Sofia.
Ma è stato solo un attimo, prima di dare spazio alla
disquisizione su potere e prossimità. “Potere – ha ricordato Cacciari – deriva dal
greco “kràtos”, ovvero la “potenza del fare”, di portare a compimento quello
che ci si propone. Ma “potere” è anche “dynamis” ovvero “il potere che risuona
nel nostro possibile”, avendo noi a che fare con le diverse circostanze che si
pongono come accidenti ed ostacoli.”
La radice latina della parola “potere” deriva dalla parola “potestas”
, da cui “pater”, e “patrizi”, detentori del potere supremo nella famiglia e
nella società.” Reagire a ciò è contraddire il nostro stesso linguaggio.
Il limite della “potestas”
è che in essa dev’essere introdotto il concetto dell’ “alma venus”, dell’eterno
femminino, richiamato in qualche modo anche dalla figura della “teòtocos”, la
Vergine, che si inserisce come terzo elemento, tra Padre e Figlio, e che non è
solo “genitor”, ma “auctoritas”, da “augeo”, generare, appunto . La meta del “potere”
dev’essere però la “crescita”, altrimenti quello resta fine a se stesso, e non né “auctor”, né “imperator.”
Il “potere” ha senso, quindi, solo se si apre e si approssima all’altro, per
liberarlo dalle sue angustie. In tal modo va letta anche laicamente la parabola del buon
Samaritano, colui che vede come intollerabile la condizione di sofferenza di
chi gli è prossimo e, dunque, avendone la possibilità, cerca di cambiarla,
soccorrendolo. Nel divenire “liberante”, usa la “tattica”, ovvero il “ragionamento”,
senza il quale il potere resterebbe solo “autoreferenziale”.
Come dire che coloro che esercitano il potere devono
utilizzarlo per aiutare l’altro ad uscire dalla propria condizione di
sofferenza. Bel messaggio ai politici di turno. Che si concretizza anche in un
elogio della Costituzione, per il quale lo spunto è dato dai numerosi e
pertinenti interventi in sala, soprattutto giovanili: “Il diritto non è
costrizione, ma missione dinamica” e le
leggi non elementi di costrizione della libertà, ma strumenti per poterla
pienamente attuare nella vita concreta.
E il buon Samaritano? “Lo forma la Scuola – ha sostenuto
alla fine Cacciari – almeno dovrebbe ...Ecco perché quella pubblica va
finanziata e valorizzata. Altrimenti le nostre migliori energie se ne vanno all’estero
e li formeranno lì i buon Samaritani. E alla fine ci toccherà…importarli.”