Guarda il servizio dell' Elletg su ElleTv Guarda il video su "Palcoscenico in Campania.YouTube" |
di Maria Ricca
Una recitazione volutamente sopra
le righe, dialoghi scoppiettanti ed arguti, parlata esplicita e
magniloquente, sussurri (nemmeno tanti)
e grida, soprattutto, ma funzionali alla messinscena, hanno caratterizzato
potentemente “Don Chisciotte, Carluccio e la fattucchiera”, lo spettacolo
proposto per la rassegna “Obiettivo T” della Solot, firmato da Antonio Iavazzo,
attore, regista, didatta e formatore in discipline teatrali e dello spettacolo
ed in tecniche di creatività. Che, nella pièce portata in scena al Mulino
Pacifico dall’Associazione Teatrale “Il Colibrì” , ha mescolato insieme
ingredienti dei più disparati, orchestrandoli sapientemente in una farsa, ed attingendo a piene mani dalla tradizione delle
“atellane”, ma anche della commedia dell’arte, da certe suggestioni
scarpettiane fino al realismo linguistico tipico di opere popolari.
Nulla di improvvisato, perciò.
Dietro a ciascun personaggio, perfettamente caratterizzato e volutamente
prevedibile, in gesti ed azioni, secondo un copione scritto dalla tradizione e segnato
dalla tipizzazione esasperata dei caratteri, si è notato perfettamente lo studio
particolare degli interpreti e del regista.
Così don Chisciotte, nella
trasposizione scenica in provincia di Napoli, torna ad essere un ardente idealista, al servizio degli umili e
degli oppressi, delle donzelle in difficoltà e delle nobili cause. Con lui,
nella “pugna”, il fido Sancho, qui un “figlio del popolo”, rozzo e
sempliciotto, ma arguto e di indole pratica, come nell’originale. Le “signore” rappresentano i più diversi
volti della femminilità, dalla dignitosa Santina, alla dinamica e buona domestica
Berta, dalla furba Teresella, prostituta miracolata, fino alla “fattucchiera”
imbrogliona, “orribile visu”, ma troppo pasticciona per essere presa sul serio.
Il “signore del castello” è un
prepotente “guappo di cartone”, dal cuore di burro, che però non disdegna “mazzate” agli
avversari, con l’aiuto dei suoi improbabili “bravi” e di uno zio cardinale,
corrotto, naturalmente, come nella più popolare delle immaginazioni. E qui ci
sta tutta la colta citazione, volta in operetta, ovviamente, di ben altri
“villains” di manzoniana memoria.
Insomma, un “pout pourri” di
grande effetto , che dapprima ha stupito e poi ha coinvolto il pubblico, molto
divertito, alla fine, e sicuramente ammirato dalla sapienza dei movimenti, soprattutto nelle scene di gruppo,
perfettamente orchestrate, senza sbavature o cali di ritmo, grazie anche al
dinamismo e alla professionalità degli interpreti, che mai si sono risparmiati,
a coreografie indovinate ed ad una grande attenzione a costumi, trucco e
parrucco, volutamente esagerati per offrire la migliore caratterizzazione dei
personaggi.