La pièce, scritta da Vincenzo
Russo e diretta in scena da Luciano Medusa, commuove ed appassiona
di Maria Ricca
“E’ ‘na guerra”, ma, tutto sommato, … “E’ bello lavorare”. Tre parole e poi altre tre, che si
contrappongono le une alle altre, in perfetta simmetria lessicale, per
raccontare la storia di Marirò, impiegata in un’azienda telefonica. Efficiente,
attiva, entusiasta, in una parola “brava”. Troppo, per non suscitare invidie e
per non diventare il bersaglio di chi aspira al ruolo che ella, con
senso di
responsabilità e disciplina, ricopre, ma anche ai “privilegi”, ferie e festivi compresi, che le toccano di diritto.
E’ l’inizio di una
travagliatissima Odissea di ”mobbing”, narrata con dettagliata precisione da Vincenzo
Russo, l’autore del libro da cui la pièce è tratta, “Che bello lavorare”,
appunto, e che il regista Luciano Medusa ha scelto di raccontare in video ed in
presenza, al Teatro “Scarpetta” di Casoria, nello scorso fine settimana,
gremito in ogni ordine di posti.
Parte del ricavato dalla vendita del volume, da cui è tratto il testo dello
spettacolo, è stato destinato alla U.I.L.D.M. (Unione Italiana Lotta alla
Distrofia Muscolare) Sezione di Ottaviano, Presidente Maria Maddalena Prisco,
presente in teatro.
Il martirio di Marirò ha una data di inizio, a metà aprile 2004, quando cominciano le vessazioni dei “superiori” e dei colleghi, le
pressioni perché lasci il suo incarico, e perché, “premiata” per la propria efficienza,
torni ai turni del call center.
“Promoveatur ut
amoveatur”, si diceva una volta, ovvero si promuova qualcuno ad incarichi
migliori per rimuoverlo dal proprio posto di lavoro.
Ed è così, anche per Marirò, che, naturalmente, a tornare alla gavetta, dopo
aver giustamente
meritato qualifiche più elevate, non ci sta, non ci può stare.
Fidi scudieri, al suo
fianco nella lotta per la difesa dei propri diritti, sono Cosimo Alberti, fratello della protagonista, ed il collega ed
amico Edo (Pasquale Aprile), unico “temerario” a restarle vicino, incurante
delle conseguenze.
Una “via crucis” nella quale a Marirò non viene risparmiato nulla. La protagonista
attraversa una vera e propria selva oscura, ove occorre ogni volta guardarsi le
spalle e schivare colpo su colpo. Si ammala, è inevitabile, di depressione, non
mangia più, non dorme più…E se sul proprio cammino trova un medico saggio ed
intelligente, che le riconosce clinicamente i danni del “mobbing”, è costretta,
poi, a sperimentare voltafaccia ed inganni dell’avvocatessa “battagliera” che
inizialmente la sostiene e infine si
allea con l’azienda, i ritardi della burocrazia, la fragilità e la debolezza
delle figure sindacali che dovrebbero sostenerla. Finché non diverrà
sindacalista lei stessa e, consapevole ormai delle storture e degli inganni del
sistema, assisterà altri colleghi nella sua medesima condizione. Una novella Erin Brockovich,
per stare ai riferimenti cinematografici, e fatte le debite distinzioni, che
riuscirà, in conclusione, a far valere i
propri e gli altrui diritti, con l’assistenza di un difensore più accorto ed
ammirato dalla sua capacità, pur attraverso mille sofferenze, di riemergere
dall’abisso.
Ma la parola fine, nonostante tutto, è
ancora di là dall’essere scritta, poiché molti sono tuttora gli ostacoli
(appelli, giudizi in Cassazione, ricorsi e così via… ) da affrontare e superare.
Palpabile è stata la
commozione degli spettatori in sala, molti dei quali hanno riconosciuto nella
vicenda di Marirò la propria , condividendone ogni dispiacere, alcuni, orgogliosamente,
senza nascondere le lacrime. Perché di una storia vera si tratta, ed è tale l’amarezza, che “intender non la può chi non la prova”.
E’ stata la protagonista stessa, infine, la vera Marirò,
ad alzarsi in piedi e a ricevere la solidarietà del pubblico, che ha applaudito
convinto.
“Picchiano solo chi
si lascia picchiare”, ha sottolineato alla fine il regista Medusa, ricordando
le parole del giudice Falcone, che pagò con la vita la propria caparbia voglia
di giustizia. “Ognuno tragga, dunque, le
proprie conclusioni e si prenda le proprie responsabilità – sono state le parole di Vincenzo Russo, l’autore del
testo, che, dopo aver ironicamente ricordato
le ennesime “innovazioni” del “Jobs Act”, nel senso della disciplina dei
rapporti di lavoro, ha chiosato: “Il prossimo libro che scriverò sarà, forse,
intitolato “I nuovi schiavi”.
E non c’è altro da aggiungere.