di Maria Ricca
E’ “Il dono della libertà” quello più prezioso. Quello che
assaporano, tornati a casa, Lelio ed Armando, sopravvissuti a quella mano
diversamente nemica che li tenne prigionieri all’indomani dell’armistizio dell’8
settembre 1943. Ma sembra non esserci né tempo, né modo di raccontare quanto
patito. “Di quel periodo
così ingombrante di storia nazionale nessuno ha mai
voluto, con dovizia, indagarne il portato ed il lascito, la verità e la
post-verità. Forse per rimozione collettiva o per coscienza sporca.” Così Bruno
Menna, giornalista professionista nell’ultimo suo libro, “Il dono della libertà”,
appunto, nono lavoro della collana “#Memoria#Identità#Futuro”.
Ed è attraverso le voci dei due ex commilitoni, rimasti in
contatto nonostante i propri diversi vissuti, culturale e professionale, che l’Autore
ricostruisce non solo i disagi e le miserie patite da entrambi, ma soprattutto
quello che fu il loro ritorno alla vita, ben documentato nel libro, attraverso la rievocazione dei diversi passi
che lo Stato fece, al loro rientro in patria.
Eppure, tornati, dovettero subire la sorte tipica di chi è ormai altro dalla propria realtà, lasciata troppi anni prima, per potervi essere ancora integrati. “Per tanti…si palesò il sentiero stretto e tortuoso del riconoscimento dello status, per conseguire un’occupazione o un sussidio che sancisse il pieno ed effettivo rientro nella vita civile.”, ricorda Bruno Menna. "Chi si sarebbe preoccupato della loro “Resistenza disarmata”?", afferma l’Autore, sottolineando come i reduci vivessero il medesimo “frame” esistenziale, la “…convulsiva insonnia e la chiassosa solitudine di Gennaro, il protagonista di “Napoli Milionaria”, accerchiato dal branco che faceva tabula rasa, poltiglia, strame delle sue ambasce, perché voleva rompere i ponti, voltare la pagina, tagliare la corda, senza farsi carico del significato portentoso, immarcescibile, divinatorio, della “nuttata”, che doveva pur passare, portandosi via i fantasmi della dissoluzione, della decadenza…”. Insomma non c’era posto per loro, delusi, che furono, si direbbe oggi, “bannati, spammati, trollati da chi li considerava icone della sconfitta, tristi “emoji “dell’Italia che aveva perso tutto e stava scontando la pena”. Non stupisca il linguaggio realistico, quotidiano, tipico dei social, usato dal giornalista Menna, per descrivere quanto accadde: “E’ un tentativo di coinvolgimento dei più giovani, che pure qualcosa di più sui loro nonni vorrebbero (dovrebbero?) saperlo. “, dice.
E il riconoscimento, infine, arrivò. Nell’autunno del 1960,
mentre nei cinema si proiettava “Tutti a casa” di Luigi Comencini, con Alberto
Sordi, che ricordava, con amarezza ed ironia, lo sbigottimento dei soldati italiani dopo l'armistizio, Lelio ed
Armando ottennero, insieme con l’insegna ed il brevetto, l’agognata
medaglietta: “In riconoscimento dei sacrifici sostenuti nell’adempimento del
dovere”. Negli anni Settanta sarebbe
arrivato il “Distintivo d’Onore di Volontari della Libertà”, negli anni
Ottanta, il “Diploma d’onore ai combattenti per la libertà d’Italia”, nel 2006,
riconoscimento postumo, la medaglia d’onore ai cittadini italiani militari e
civili, deportati ed internati nei lager
nazisti.
Meglio tardi che mai, chiosa l’Autore, che conclude il
proprio libro, consapevole che solo ritrovando radici comuni si potrà
continuare a sperare in un Paese migliore, solidale, plurale, dove mai più
drammi del genere possano verificarsi.
E’ il modo per ricordare la necessità dell’abbattimento di
muri e fili spinati, nell’ottica di una “communitas” pronta all’asilo dei
migranti, che cercano protezione, disponibile
a non smarrire “la pietas e la fraternitas nel fango dei lazzaretti 2.0, quando
non nella fossa senza senza cipressi del Mediterraneo…poiché la clandestinità è
la via Crucis, di chi brama il futuro…aspettando il dono della libertà.”