Il regista Pino Carbone |
di Maria Ricca
Scenografia essenziale, luci
spettrali, abiti “non-abiti” sobri. Mondato di qualsiasi riferimento alla
tradizione partenopea, ad eccezione dell’accento e della cadenza tipica degli
attori, è andato in scena al De Simone, in Città Spettacolo 2013, “Il contratto” di Eduardo De Filippo, nella
lettura del regista Pino Carbone, secondo omaggio, propiziato dal direttore
artistico Baffi, al grande autore, nel
trentennale dalla sua morte, dopo il “Sik Sik” di Pierpaolo Sepe, con Benedetto
Casillo.
Una scelta strategica,
evidentemente, che ha offerto maggior
risalto alla svolta “pirandelliana” che fu del drammaturgo partenopeo,
indagando sapientemente le dinamiche imperscrutabili dei rapporti umani. Tre
gli atti, per altrettante fasi dell’analisi, la prima, dedicata all’individuo, la seconda agli affetti, la terza alla società, come si
legge nelle note di regia.
Francesca De Nicolais |
Non servono fronzoli, basta, nel
primo atto ed in quelli successivi, la
recitazione intensa, fatta di chiaroscuri ed ammiccanti sottolineature del sempre versatile Claudio Di Palma a restituire intatta la
figura sinistra di Geronta Sebezio, l’impostore
che predica amore ed approfitta della buona fede altrui, promettendo
resurrezione facile, nel nome dell’affetto familiare, a chi è circondato di
parenti anche avidi, che sa frodare a puntino, senza giocarsi la reputazione, ma
aumentando a dismisura, con funambolesca astuzia, il proprio patrimonio.
Nel secondo atto è l’attrice
Francesca De Nicolais (curatrice del testo con Carbone e Andrea de Goyzueta),
soprattutto, a tenere la scena, energica interprete di una moglie abbandonata,
ma combattiva, poi vedova astuta, nell’esplorazione delle dinamiche familiari e
degli “affetti”, che fanno a pugni con gli interessi spicci, ai quali non si rinuncerebbe
manco morti, appunto. Una recitazione, la sua, volitiva ed energica, a
sottolineare la fatica di un’esistenza di privazioni e dunque poco incline alla commozione e alla
solidarietà. De Goyzueta dà il volto, efficacemente,
all’apparentemente ingenuo parente e sodale dell’impostore, beneficato dalla
sorte, succube e complice delle sue mire.
Non c’è spazio per i sentimenti ,
ma solo per il conseguimento dell’interesse più bieco. Di quello è spettatore
consapevole Geronta, di quello approfitta abilmente.
L’ultima parte dello spettacolo, “sociale”,
è affidata visivamente ad una giostra di sedie e di figure colorate, la giostra
della vita, che inganna chi si lascia sopraffare dalla paura e pertanto
pretende il “contratto”, per assicurarsi l’immortalità. Solo alla fine, il
pubblico, ormai sinistramente ammaliato dalla figura dell’impostore, comprende l’arcano. E’ troppo tardi, ormai, non
solo per lo sciocco Napoleone, l’ultimo
in ordine di tempo, che si affida alle cure di Geronta, ma per tutti i pavidi,
destinati a cadere in trappola. Applausi, infine, e diverse chiamate in scena
per gli interpreti della rilettura moderna di un testo davvero coinvolgente.