di Maria Ricca
Il dandy e l’uomo. La brillante arguzia e le miserie umane.
Ironia amara e senso del grottesco disegnano efficacemente la
parabola esistenziale di Oscar Wilde in “Oscar”, in scena nell’ultimo week-end
di Città Spettacolo, al De Simone. Del difficile compito di restituire al
pubblico intatta l’anima e l’essenza più vera del drammaturgo inglese che
scandalizzò la bigotta società vittoriana, si è incaricato Gianluca Guidi. E lo ha fatto su testi di Masolino D'Amico, regia Massimo Popolizio e musiche di Germano Mazzocchetti, senza
risparmiarsi un attimo, in una frenesìa interpretativa che gli è derivata dal
suo nascere attor brillante e che ha saputo profondere tutta nella difficile impresa. Restando ancora sulla scia di papà Dorelli, ma finalmente libero dall’etichetta di “figlio
d’arte”, per meriti acquisiti in tanti anni sul palcoscenico e quindi abile nel far rivivere successi e disgrazie di colui che
più di ogni altro seppe smascherare e mettere alla berlina i vizi di certa
società “bene”, che non gli perdonerà poi tanta disinvoltura e disincanto.
Non può che cominciare dalla fine, quindi, il racconto della
vita e delle opere del drammaturgo inglese, riavvolgendo in un certo qual modo
la pellicola di quello che, in effetti, per ambientazione e regia, ha le
caratteristiche di un film muto. “Oscar Wilde è morto”, strilla il titolo del
più famoso giornale dell'epoca, mentre l’interprete Guidi, già tutt’uno col
personaggio, racconta di se stesso e del suo desiderio di vivere l’eccesso in
ogni campo, perché “solo lo straordinario sopravvive”. Atteggiamento che lo rese popolarissimo ed apprezzato nella
prima fase della sua esistenza, l’ “idolo di Londra”, con le sue brillanti ed
ingegnose commedie. Un successo dopo l’altro, che Wilde seppe godersi, senza
riserve. Furono gli anni delle conferenze americane, degli abiti eleganti, dei
fazzoletti colorati, delle battute argute e spiazzanti, del gioco con “la
venerabile arte della menzogna”. E le scelte di regia hanno tutto restituito al pubblico con la recitazione
serrata di Guidi, che, fra l’altro, ha cantato
disinvoltamente in inglese, sottolineando ogni passaggio emotivo, abile nel
muoversi in scena, grazie anche alla padronanza dei mezzi e degli arredi,
abilmente costruiti per raccontare il personaggio. Un sistema semovente di
binari gli ha consentito di cambiare
ambientazione ogni volta ed altrettanto hanno fatto le proiezioni scenografiche
dei quadri “animati” alle spalle, di cui lo stesso Guidi è stato protagonista.
Come nella migliore delle interpretazioni freudiane, il
principio di ogni disagio sentimental-sessuale non può che essere la madre,
incombente, che avrebbe desiderato una bambina e che come tale, quindi, nei
primi anni educa Oscar. Il drammaturgo ingaggia con lei, sempre altera e sprezzante,
enorme ai suoi occhi, anche fisicamente, una “singolar tenzone”, nella quale soccombe.
C’è spazio anche per l’amore e la tenerezza nella prima vita
di Oscar Wilde. La trova in quel l’Alfred Douglas, che incanta, per la sua
giovinezza ed innocenza, lui, ormai
maturo e consapevole.
Sono amanti, chissà…Ma certo sono uniti da un sentimento
fortissimo di attrazione e di reciproca devozione, per motivi diversi. Tutto
inutile: “Guilty”, “Colpevole” , sentenzia
il giudice che lo condannerà dopo un
processo infamante ed umiliante, solenne accusatore il terribile padre dell’amato,
in cui gli sarà rinfacciato di tutto e
la sua vita sarà scandagliata in ogni più intimo dettaglio. Ce n’è abbastanza
per condannarlo ed imprigionarlo in una condizione miserevole in cui Wilde si
ammala nel corpo e nello spirito.
Il carcere, la perdita della libertà e della salute, mai
della dignità, però, nonostante le
privazioni, la delusione di aver perso tutto, le allucinazioni e la splendida
fiaba allegorica del gigante, Guidi le ha proposte al pubblico, con una rara felicità interpretativa.
Gli ultimi anni Wilde li trascorre in un sordido hotel di
Parigi, abbandonato da tutti, ma in compagnia del suo brandy, perché comunque
sia, “sto morendo al di sopra delle mie
possibilità”, dice. E la classe non è acqua, appunto.
Fino al funerale solitario (“Appena tredici persone, incluso
il prete, esclusa la salma.”) e niente riabilitazione. Fino a quando sarà
riesumato per essere sepolto nel cimitero di Père Lachaise a Parigi, ancora
intatto, nonostante il tempo.
Un “occhiolino” finale al pubblico, dal ritratto “post mortem”, suggella ancora
una volta con ironia un percorso irripetibile e speciale. Perché, in fondo, dice Wilde, ne è valsa la pena. Applausi per Guidi, stanchissimo ed
emozionato, alla fine, "felice – ha detto –
di essere stato ancora una volta invitato a questo Festival."