di Maria Ricca
Ci sono dei punti di contatto fra le culture dei sud del
mondo. E questo è innegabile. E’ perciò che la visione e la concezione della
donna dell’antica società patriarcale, contadina e mediterranea, in molti punti
sembra toccare quella tipica di certo Islam, così austera ed intransigente nei
confronti del mondo femminile. Deve, dunque, soffrire la donna che si sposa, essere
condannata ad un destino di fatiche e di impegno costanti, per soddisfare le esigenze di chi da lei si
aspetta efficienza, dedizione ,
instancabile attivismo. Senza mai un lamento che sia uno, prona alla volontà
della suocera prima, del marito poi, ed infine dei figli. Un destino a cui
sottrarsi è difficile. Eppure talmente
“normale” nel suo compiersi, che chi vi è esclusa, perché “zitella”, ne soffre
ugualmente ed è infelice, fatta oggetto, com’è, di scherno invincibile da parte
della comunità.
E’, quindi, un “coro
greco” di rassegnate donne in gramaglie ad esprimere, in avvio di performance, l’anima
dello spettacolo “ ‘Lo sposalizio”, messo in scena, al Mulino
Pacifico (replica dell’omonima performance rappresentata a fine corso) dagli allievi over 26 di Teatro
Studio della Solot, Assunta Maria Berruti,
Carlo Maria Berruti, Laura Callea, Lucia Cavuoto, Sara Cicchella, Alessandro
Cuciniello, Danila De Lucia, Paola Gioioso, Marianna Laudato, Valentina
Mottola, Giovanna Reveruzzi, Nella Ventorino, con gli allievi di Teatrostudio Annachiara
Benedetto, Giovanni Cannata e Marco Orlando. Regia di Antonio
Intorcia.
Una messinscena costruita tra realtà e fantasia, utilizzando
al meglio gli spazi esterni ed interni della struttura, attraverso i quali gli
spettatori sono stati condotti per mano a riconoscere, scena per scena, gli
elementi tipici dell’allestimento di un matrimonio contadino,con tutti i
riconoscibilissimi clichés della vita di una comunità come quella rurale.
Emergono così via via, in riusciti “camei”, i personaggi del padre della sposa, in ansia
per il raccolto e le carestie ed in continuo conflitto con il Padreterno,
“dispensatore” di ogni evento, buono o cattivo che sia, della soave sposa-bambina,
che si è ricamata il corredo da sola, della parente invidiosa della “felicità”
della nubenda, dell’efficiente madre al vertice dell’organizzazione, preoccupata, però, non tanto per i problemi logistici che l’evento pone, ma
anche e soprattutto, per il notevole dispendio economico che un matrimonio
comporta, onde non sfigurare con gli ospiti, del giovane ingenuo, “scemo del
paese”, deriso e coccolato da tutti, devotissimo alla Vergine, del giovane
innamorato abbandonato e del contadino che narra ad un pubblico attento e
divertito la storia della volpe, bruciata dalla cometa, che inseguiva
appassionatamente. Il tutto espresso in una lingua vernacolare aspra, ma
efficace, dura, e per questo forse più convincente.
Sullo sfondo la
natura, e lo scorrere del tempo, gioiosamente rappresentata dalle due attrici interpreti
di aprile e maggio, il mese delle spose e dell’allegria, con il contorno della veggente
di turno che predice il futuro e racconta quel che desidera e che si vuol sentire
e far sentire.
Applausi, infine, per una messinscena piena di spunti che
varrebbe ancora la pena approfondire e sviluppare, in un più ampio discorso
sulle tradizioni.