di Maria Ricca
“Se tu non canti, usignuolo, mi costringi ad
ascoltare le rane che gracidano”. E’
giusto, dunque, che, chi ne ha il dono, canti
, per sollevare l’umanità dalle banalità e dalla volgarità che sono intorno a
noi.
Inizia così l’inteso recital shakespeariano a due
voci di Glauco Mauri e Roberto Sturno,
appassionati testimoni dell’arte del Bardo inglese, a 400 anni dalla morte, in Città Spettacolo 2016. Una “lectio
magistralis”, che affascina l’attento cultore della materia ed incanta il pubblico avvertito, nella
perfetta cornice dell’Hortus Conclusus, suggestivo luogo dell’anima, che ben
accoglie le voci calde e l’interpretazione viva degli interpreti , su musiche
composte ed eseguite in scena da Giovanni Zappalorto.
E, così, via via i due attori ripercorrono i passi salienti delle opere più
significative del drammaturgo, immortali per l’universalità e la forza dei temi
che affrontano: “Il
mondo intero è un palcoscenico – dice Shakespeare, in “As you like it” - E
tutti gli uomini e le donne semplicemente attori”, con le loro entrate ed
uscite di scena, nei sette atti che compongono la sua vita.
Forza tragica è quella dell’ambizioso “Macbeth”, che con la vita è costretto a fare i conti, dopo il male sparso in ogni dove.
Forte e rapace è Riccardo III, abile manipolatore
delle menti. Disilluso è “Timone d’Atene”, che tira amaramente le fila di una
vita spesa ad aiutare gli altri e costretto poi a meditare la vendetta verso
gli ingrati.
La delicatezza dei versi dei sonetti 29,22,66,71, dedicati
al conte di Southampton, giovane mecenate dell’artista, è intervallo che
lenisce il cuore con l’espressione più delicata dell’amore, sia pure nell’ambiguità
dei riferimenti.
E’, infine, Roberto Sturno ad incarnare Marcantonio, per la velata denuncia dell’azione scellerata
dell’ "uomo d’onore Bruto” e ad esprimere il giudizio negativo sul traditore, argomento
potente dell’orazione funebre di Antonio alla morte di Cesare, nell’omonima
opera shakespeariana. Dolente “Re Lear” è Glauco Mauri, nel rappresentare il
tradimento e l’abbandono filiale.
La chiusura è affidata naturalmente, e non poteva essere diversamente, alla “Tempesta”,
ultima opera di Shakespeare e al monologo finale di Prospero, inteso come il
congedo del grande Autore dalle scene: “Siamo
della stessa materia di cui sono fatti i
sogni”, afferma lo spodestato duca di Milano, in riferimento agli attori sulla
scena della vita.
La grandezza di Shakespeare è tutta qui, nella semplice espressione di un’intensa
verità, che supera ogni ipotesi di presunzione su noi stessi e la nostra
esistenza.
E il teatro e la sua stessa essenza, nei suoi testi migliori, è educazione
alla sensibilità, ed offre ispirazione ad una vita più consapevole ed intensa.