Serata all’insegna delle emozioni quella che ha visto ancora una
volta protagonista la sensibile, simpatica, coinvolgente Elisabetta De Sio,
docente e scrittrice, alla Mondadori Mooks, in Piazza Vanvitelli, a Napoli. Si presentava, per il ciclo “Tra
Le Mie Righe” (Teatro, Letteratura, Musica, Rime), da Nord a Sud”, secondo
appuntamento della rassegna itinerante, il libro “Ho imparato a gestire la
pioggia d’estate”, dell’autrice partenopea. Folto il pubblico che ha preso parte
all’evento, organizzato dall’Associazione "il GRE cultura&comunicazione" di
Benevento, sotto la direzione artistica della giornalista Rosa Leone, presidente della stessa associazione, che ha introdotto l’incontro. Coordinamento generale di Gabriele Collarile.
Lo psicologo e psicoterapeuta Antonio Raia e la prof.ssa Maria Ricca, giornalista e
blogger di “Palcoscenico in Campania.it”, con
l’autrice, hanno illustrato e commentato i contenuti dell’opera della De
Sio, letti, per alcuni passi significativi, dall’attore Claudio Lardo. Il romanzo autobiografico sull'evolversi della malattia, che sconvolge la vita delle persone più care, e sulle emozioni che l’evento inatteso determina, come un’esplosione improvvisa,
nell'esistenza di chi vi assiste impotente, tentando di dare un senso alla
sofferenza, ha commosso e coinvolto i
presenti.
LA RECENSIONE
di Maria Ricca
Le pagine della De Sio inducono sensazioni fra le
più diverse. Su tutte fortissima la voglia di restare,
di lasciarsi prendere, consapevolmente, dall’universalità dei contenuti del romanzo,
nella certezza che essi possano rappresentare un percorso di crescita emotiva molto
forte, attraverso il racconto di un’esperienza che, sia pure a distanza, profondamente
arricchisce. Un viaggio spirituale all’interno del sé, mediante una sorta di identificazione con la scrittrice che sceglie di lasciare le
sponde note, per proiettarsi in un drammatico infinito, in una specie di tunnel ad imbuto dal quale venir fuori vuol dire passare attraverso la nebbia della sofferenza, senza sconti.
Elisabetta
De Sio avrebbe potuto fuggire, sottrarsi a tutto questo
dolore, senza peraltro sottrarsi alle proprie responsabilità. Farsi
aiutare, nella cura materna prima e paterna poi, sarebbe stato più che
giusto, legittimo. E, invece no, lei indossa fino in fondo gli abiti della vestale del
dolore ed avvia questo suo percorso, scrivendo quello che si rivela essere una
sorta di “Bildungsroman”, un “romanzo di formazione”, in maniera lucida, senza
trascurare alcun particolare, e dunque tanto più potente. Sembra proprio un film, infatti, questo racconto della De Sio, che appare come un iter di
“autopurificazione”, quasi catartico, non scelto, ma accettato e condiviso fino
in fondo, una volta acquisita la consapevolezza che indietro non si può
tornare.
Ed, infatti, la sofferenza della propria madre, malata di
Alzheimer, diventa così la sofferenza della stessa Elisabetta, che dimagrisce
in maniera impressionante. E lo stesso medico che ha in cura la signora dice: «Potrei tranquillamente sostenere che siete speculari,
l’una all’altra. Sua madre sta trasferendo dal corpo alla mente. Lei sta
trasferendo dalla mente al corpo».
Dunque scorrono via
via, quasi in maniera cinematografica, per chi ne è spettatore esterno, le
immagini di questa pièce dolorosa.
Fulcro
della narrazione, altro fondamentale elemento del
romanzo, è il trionfo, nel dolore, dei personaggi femminili, che
diventano il perno della vicenda, in ogni suo aspetto. Il centro della sofferenza è mamma Rosetta, il centro delle cure è
Elisabetta. Chi la sostiene nell’impegno di assistere la madre è la zia Rita,
punto di riferimento insostituibile. Tutte
donne, insomma, a riconferma che quella mediterranea è e resta una società
sostanzialmente matriarcale, ove la figura della “mater familias” rimane fondamentale, anche quando è solo apparentemente svuotata della sua forza, a
causa, qui, della malattia. Gli uomini,
pur essenziali, sembrano un po’ tutti “guidati” dalle donne, tenuti ai
margini, utile sostegno, certo, ma solo “a latere”. Mamma
Rosetta resta il nucleo della scena, dunque, anche e soprattutto quando è
inchiodata nel letto della sofferenza.
Un letto a cui Elisabetta sceglie di accostare una cassettiera rosa per
ritrovare, almeno idealmente, un luogo
in cui possa essere custodito l’amore,
la vita, “il nostro universo – dice - : la mamma,
appunto”. E tutti i figli si radunano intorno a questo letto e alla
mamma, con forza e consapevolezza, uniti, di nuovo nel grembo, di nuovo
collegati fra loro e con lei, da un cordone impossibile da sciogliere.
Una
centralità, quella femminile, confermata anche dal ripido, inesorabile
percorso verso l’oblìo del padre Luigi, che, dopo la morte della moglie, si
ammala nello spirito, e poi nel corpo,
avviandosi verso una sorta di spersonalizzazione, una perdita del sé,
sottolineata dall’uso del “tu”, da parte di chiunque venga in contatto con lui,
ormai ricoverato in ospedale, giacché
non riconosce più se stesso ed il valore della propria esistenza, senza la
figura della compagna di una vita intera. E’
come se, qui, inconsapevolmente, ma anche idealmente, Rosetta portasse via
con sé, in quell’iperuranio che è il
mondo altro, anche il suo Luigi, ove entrambi si ricongiungeranno, quasi in una unità
bifronte. Muoiono fisicamente, ma in realtà non periranno mai.
E’ il mito dell’ “eterno
femminino”, per dirla con Goethe, nel quale la donna diventa veicolo verso una
sorta di rigenerazione dell’elemento maschile, in una palingenesi che
restituisce a quello natura e dignità.
Quindi
cosa resta a chi resta, come la coraggiosa Elisabetta,
dopo la sconfitta, solo apparente, intendiamoci, rappresentata dalla fine di
entrambi i genitori?
La
consapevolezza di essere riuscita a trasformare il dramma in risorsa autentica,
a cui attingere continuamente, come un fertilizzante potente, per costruire la
propria crescita personale, un più alto livello di formazione, insomma, un
cambiamento psicologico positivo, una versione migliore di noi stessi.
Attraverso
la sofferenza, infatti, si riescono ad avviare dei
cambiamenti fondamentali per una
reale crescita post-traumatica.
Un’immagine
consolatoria, questa? Forse. Ma serve di certo a recuperare
il senso di quanto dolorosamente sperimentato. “Ho capito che ho vissuto…”,
dice infatti l’Autrice, alla fine, confermando, come sottolinea Ken Hudgins che
“Il significato della vita è dare alla vita un significato”.
Elisabetta rinasce,
così, dalle sue ceneri emotive e trova faticosamente se stessa ed il proprio
posto nel mondo, nell’esistenza.
Diventa dolorosamente adulta ed impara ad incanalare
l’energia, positiva o negativa in un percorso che conduce ad una voglia
caparbia di mantenere la barra dritta, il timone fermo, fra le avversità della
vita.
Semplicemente… Elisabetta impara a gestire la pioggia
d’estate.