ph Marco D'Ambrosio - foto Facebook |
di Maria Ricca
NAPOLI - L’eroina
tragica, che si macchia del più odioso dei crimini, è Medea. Una “Medea” che abita a porta Medina, però, nel
ventre di Napoli. E che per questo, all’asprezza
dell’originale euripideo, unisce
quella passionalità disperata, che è propria solo di certe anime lacerate,
cresciute alla scuola della vita. “Coletta
Esposito, in arte Medeaӏ la
lettura che dell’immortale
testo greco, ripreso in chiave partenopea da Francesco Mastriani, dà la regista
Laura Angiulli, nella pièce in scena fino al 5 maggio al San Ferdinando, Galleria Toledo, produzioni. Volto
e voce della protagonista sono di Alessandra D’Elia. Cipriano è Pietro Pignatelli. Convincenti e seducenti nei rispettivi ruoli.
Di nero vestita, Coletta è una “figlia della Madonna”,
un animale ferito che, a suo modo, cerca riscatto da una vita già spoglia
ed infelice dalla sua origine. Abbandona un matrimonio combinato con un anziano
benefattore, per inseguire disperatamente l’unico uomo che può, nella perversione della sua ricerca d’amore, costituire il punto di
riferimento che cerca.
Borghesuccio quasi benestante, Cipriano Barca ha il fascino
dell’uomo sicuro di sé e agli occhi
di Coletta-Medea è amore a prima vista. Ne
è “affatturata” e lo “affattura”. I due si allacciano in un tango
appassionato, che è la chiave del loro rapporto perverso. Coletta si veste del
rosso di un “amour
fou” e si unisce a Cipriano in
maniera tragica e malata, quanto intima e struggente. Nasce una figlia.
La scenografia di Rosario Squillace, che sospende in alto i
mobili della casa tanto sognata da lei, per sé e l’”uomo suo”, lascia cadere in terra, però, solo il grande letto matrimoniale, simbolo di
un rapporto unicamente carnale.
Vi resterà, infatti, sola Coletta. L’incantesimo si spezza e Cipriano le
preferirà Teresina, una“Circe” ben più astuta della
protagonista, seduttiva, ma ancor “vergine”, sposa perfetta, lei sì, più
rassicurante, della passionale e possessiva “figlia della Madonna”. A
Coletta il pusillanime Barca immagina di
poter portar via anche la bambina, per allevarla con la donna che presto sarà
sua moglie e che di certo, per lui, diventerà
una madre più affidabile.
Tutto è perduto, ormai, chiosa il “coro greco”, che avvolge i protagonisti. E’ lì che Coletta si trasforma in Medea,
recando, infine, quale regalo di nozze allo sposo, il cadavere della loro bimba
e pugnalando sull’altare
la sposa.
L’ignobile
gesto condanna per sempre la donna, abbandonata nel più vile dei modi.
Il fascio di luce che avvolge la protagonista, nella scena
finale, sigla un’interpretazione mozzafiato e il dolore,
che l’attraversa, penetra e avvolge
tutti, nel teatro, “dove
tutto è finto e niente è falso”, davvero.
E che sia il 431 a.C. o il 1792, come
in questo applaudito allestimento, poco importa. “Medea”, oggi, può abitare anche alla porta accanto. Basta
sfogliare le pagine di cronaca e non restare indifferenti.