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29/06/20

TEATRO - "Nuovi Giochi Reali", a "Racconti per ricominciare". E "Vesuvioteatro.org" riporta in scena la cultura

di Mario Martino ed Emilio Spiniello


ERCOLANO - La Campania ricomincia, anche dal punto di vista culturale. Grazie all’inventiva di Vesuvioteatro.org e al coordinamento di Giulio Baffi e Claudio Di Palma, in tutta la Regione diverse suggestive location hanno fatto da cornice ai percorsi di teatro dal vivo “Racconti per ricominciare”. Un titolo emblematico per dire a gran voce che la ripartenza post Covid-19 passa anche attraverso i circuiti teatrali e culturali. Ad Ercolano, vista mare, è andato in scena “Nuovi Giochi Reali” nel Parco sul mare della Villa Favorita.
Questa elegante struttura, dotata di ampi giardini, fa parte degli immobili monumentali settecenteschi costruiti ai piedi del Vesuvio dai nobili napoletani alla corte dei Borbone. Un polmone verde caratterizzato dal ricco patrimonio botanico, ricco di essenze mediterranee ed esotiche. I microspettacoli, di seguito analizzati, sono stati molto apprezzati dal pubblico presente. Il primo dei cinque spettacoli del percorso itinerante è “Il funeralista” con Fabio Rossi. Lo sceneggiato, tratto dal libro “I funeracconti” di Benedetta Palmieri, ruota intorno alla figura di un uomo, l’impeccabile signor Dessì, che prende parte ad ogni funerale che si svolge nella sua città, anche di persone che non ha mai conosciuto. L’apparentemente stravagante abitudine del funeralista in realtà non è nient’altro che il riconoscimento sociale di una nuova maschera, una nuova identità caratterizzata da una ipocrita vanità che a sua volta, probabilmente nasconde una profonda solitudine dell’uomo che si aggrega ad ogni corteo funebre o siede sulla più recondita panca di una chiesa solo in attesa di essere notato. La sua è una vera e propria dipendenza: presenziare le cerimonia gli piace e lo soddisfa completamente. Lo soddisfa così tanto che l’uomo inizia addirittura a raccogliere in un’agenda tutti i funerali ai quali ha preso parte: quelli meglio riusciti (nei quali è stato notato, riconosciuto ed ammirato) e quelli catastrofici (nei quali i parenti del defunto, invece, hanno messo a nudo la sua ipocrisia, evidenziando la totale mancanza di un qualsivoglia legame con il morto). Invecchiando, il funeralista teme che tutto il suo lavoro possa finire nell’oblio ed essere dimenticato per sempre. Per questo motivo, il signor Dessì assolda un sostituto, o meglio una sorta di assistente-funeralista che inizia ad accompagnarlo e poi pian piano lo sostituisce, mostrando sempre maggiore dedizione alla causa ed una certa eleganza nel ruolo, tale da far meravigliare anche lo stesso funeralista. L’epilogo è tragicomico. Un giorno, infatti, il nuovo funeralista, al suono delle campane, precipitatosi dinanzi alla chiesa, scopre di ritrovarsi ad un funerale al quale forse non avrebbe mai voluto partecipare. Le parole del parroco, cadenzate e fredde, recitano: “Oggi ci lascia il signor Dessì”. Il nuovo funeralista era diventato una maschera orfana… A pochi metri dalla spiaggia, difronte ad una inimitabile coreografia naturale in cui la linea dell’orizzonte fa baciare mare e cielo, prende poi vita il secondo spettacolo del percorso itinerante: “cozzeca nera” di e con Massimo Andrei. La storia è quella di una cozza che vive su uno scoglio del mare di Mergellina e che è chiamata dagli altri frutti di mare, dai pesci e da ogni creatura marina “cozzeca nera” per via del colore del suo guscio. La vita di cozzeca nera procedeva regolarmente tra i corteggiamenti di alcuni petulanti pesci e le improbabili avances dei frutti di mare; puntualmente stroncati sul nascere dall’indifferenza di cozzeca nera. L’unica forma d’amore che cozzeca nera conosceva era, infatti, l’assoluta fedeltà al suo inseparabile scoglio. Eppure, un bel giorno, cozzeca nera fu costretta ad abbandonare il suo posto nel mondo su ordine di Poseidone e con l’accusa, formulata da alcuni dei pesci più nobili e ricercati dei fondali marini, di essere la causa della terribile peste che andavo cogliendo tutti gli uomini che mangiavano specialità di mare. Sradicata violentemente e senza scrupolo alcuno dalla sua dimora, cozzeca nera fu condotta nell’abisso del mare dove si ergeva il temibile tribunale marino, presieduto dal figlio del padrone di quei regni: Tritone. Così, Andrei, con un lingua ed un lessico di mare, capace di restituirci nomi, suoni, sensazioni e perfino silenzi delle profondità marine, riassume sinteticamente ciò che accade in quel tribunale dove la maggioranza della platea concordava con la schiera dei pesci nobili: cozzeca nera era la rovina ed il disonore del regno marino e l’aver causato una peste tra gli uomini era considerata la logica conseguenza di una condotta ignobile e di basso profilo, degna di una cozza dal guscio nero che nient’altro sa fare che nutrirsi del peggio che le onde del mare trasportano. A questa altezza, è più che evidente il paragone, fuor di metafora, con le condizioni sociali, gli stereotipi, i luoghi comuni e le secolari etichette che affliggono tutti quegli uomini colpevoli di avere non il guscio, ma bensì la pelle nera. Alla fine del processo, cozzeca nera non fu condannata a morte, come invece avrebbe voluto la schiera dei pesci puristi, ma fu comunque punita con il divieto assoluto, per lei e per tutti gli esponenti della sua ignobile razza, di apparire in società sulle tavole degli uomini. La storia si conclude, dunque, con cozzeca nera che senza avere alcuna colpa, se non quella di essere figlia di un tempo brutale, torna a mangiare tutto quello che il mare le sbatte in faccia, passivamente, senza avere più nemmeno un riconoscimento sociale. I pesci tornarono a fare i pesci, gli uomini ripresero a fare gli uomini e cozzeca nera continuò ad essere nera, ogni giorno più nera, sempre più nera, fino a diventare, più o meno, dello stesso colore del petrolio… Terza location, terzo spettacolo. Sul bordo di un’isola verde cammina a piedi nudi e visibilmente provato Pinok Pezzok, protagonista di una vicenda tanto triste quanto attuale. Lo sceneggiato (di Marcello Amore e Sergio Longobardi) è uno spaccato della contemporanea tratta degli schiavi che ci riguarda da vicino, da molto vicino. Marcello Amore è il sopravvissuto Pinok Pezzok che racconta la terribile storia di un gruppo di profughi che non ha retto gli infiniti colpi della migrazione: dal naufragio nel mare allo sfruttamento sulla terra ferma, da una fiamma all’altra dello stesso inferno. Pinok, per assonanza facilmente associabile all’intramontabile eroe collodiano, non è solo il narratore delle traversie e dello sfruttamento, ma è anche la rappresentazione plastica della ciclica ed infinita “banalità del male” in una chiave tremendamente contemporanea. Quando, all’indomani dell’ennesimo contraccolpo fisico e psicologico, gli altri due fuggiaschi cedono e si impiccano, Pezzok non arriverà all’estremo gesto, ma la balena della tortura lo spremerà fino allo sfinimento, fino a fargli perdere i sensi e quasi la vita. Una dissoluta équipe medica lo ritroverà sulla spiaggia, da poco sputato fuori dal suo inferno e si interrogherà sul da farsi. L’uomo non è ancora morto, ma sta per morire: salvarlo o non salvarlo? Ridarlo alla terra o restituirlo al mare? La vita di un uomo che non è come noi, ma che in napoletano sarebbe un “ pezzot’ ”, anzi per meglio dire un “pezzok”, è nelle mani di un gruppo di affaristi che sono molto scettici sull’utilità di provvedere a trovare per lui una nuova milza, un nuovo braccio, delle nuove gambe, una nuova vita ed un futuro… Il quarto spettacolo del percorso conduce gli spettatori nelle ombre di un fresco boschetto poco distante dal lungo mare dove l’attrice Irene Grasso mette in scena l’opera “La musa nolana” di Gennaro Ascione, un’opera in cui sono sapientemente mescolati il registro linguistico dialettale ed italiano, rappresentazione metaforica di una mescolanza che andando avanti nella narrazione si fa tematica prima e sociologica poi. Infatti, l’opera ci restituisce un articolato e appassionato racconto della musa nolana che, malvista e disprezzata da tutti, ad un banchetto inizia a dar scandalo tra le stanze paradisiache delle residenze divine una fitta rete di “(nuovi) giochi reali” coinvolgendo ben presto quasi tutte le personalità semidivine, umane e satiriche presenti; personalità storicamente e stoicamente così lontane, ma che d’improvviso riscoprono la carnalità che li accomuna e che li fa comunque, unitamente, tutti bestie. La mescolanza linguistica si fa così anche mescolanza tematica e la sottile commistione tra sacro e profano inizia a prendere forma. L’epilogo, con la ferma presa di posizione della musa nolana a difesa delle sue origini, del suo modus vivendi e della sua morale, sciolgono l’ultimo nodo di un raffinato esercizio stilistico che gli spettatori scoprono essere anche sociologico. “ ’A mus’ nolan’ è figlia e puttan’”, senza madri, padri, muse, divinità o satiri da servire… Infine, l’ultima tappa conduce nei pressi della bella fontana reale, dove un tempo prendevano vita “vecchi giochi (d’acqua) reali” e dove oggi, in occasione di “Racconti per ricominciare” prendono vita “nuovi giochi teatrali”. Alle spalle della fontana reale, infatti, l’attrice Margherita Romeo ha inscenato “Un’illogica energia” di Marco Lodoli ed Edoardo Nesi. La storia è quella di ognuno di noi, intrappolato in quel menzionato strato di cellofan che si interpone tra l’inferno ( o meglio gli inferni) del nostro io e il cielo dei nostri desideri, dei nostri sogni e della nostra libertà. Questo strato di cellofan obbliga la protagonista a vivere gran parte della sua vita a marce ridotte, tra obblighi sociali ed impegni lavorativi che giorno dopo giorno inspessiscono il cellofan fino a rendere impossibile la penetrazione anche di una sola minuscola goccia di indipendenza, ribellione, speranza o felicità, causando una siccità ed una aridità sentimentale che spalancano le porte ad un deserto sociale che avanza, a grandi passi, verso le nostre vite, nutrendosi delle macerie delle nostre speranze. L’unica via di fuga, per la protagonista, è la sua abituale partita a tennis; l’unico momento della sua vita in cui riesce, battendo un colpo secco contro la sua pallina gialla a squarciare quello strato di rassegnazione e “pah”, comincia il match con la vita, la sfida con la felicità. Ad ogni colpo, “un’illogica energia” esplode in ogni angolo del suo corpo, senza uscire da nessun lato. Esplode e resta dentro, in un corpo che inizia ad obbedire all’energia di una riconquistata libertà e a disobbedire alla logica ed ecco che canta a squarciagola ingoiando moscerini, si lascia accarezzare dal vento in motorino, freme di vita, balla. Gode, dal momento immediatamente precedente a quel “pah” e poi per tutto il viaggio di rientro verso casa, di un’adrenalina violentissima dentro, ma di un sorriso pacatissimo e quasi trasognante fuori. Avete presente quel sorriso da scemi che hanno quelli che qualche volta riescono, se non ad essere felici, almeno a camminare, guidare, lavorare o salutare godendo finalmente della pioggia?